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L’inquinamento atmosferico della capitale mongola ha raggiunto livelli preoccupanti, ed una perenne coltre di fumo è calata sul paese dagli immensi cieli blu: Ulan Bator è in cerca di aria.

La Mongolia, un tempo conosciuta per la sua natura selvaggia e incontaminata, si ritrova oggi a boccheggiare tra i gas di scarico di comignoli e industrie.

Per decenni la società mongola è riuscita a resistere alle spinte globalizzanti della modernità e a mantenere una propria identità culturale. Tuttavia, il tradizionale nomadismo pastorizio è oggi messo a dura prova da un nemico ancora più potente della globalizzazione: il cambiamento climatico.

La migrazione di massa dei pastori verso Ulan Bator

A seguito dei ripetuti dzud (cioè gli inverni particolarmente rigidi che si sono fatti sempre più frequenti negli ultimi anni e affliggono i pastori mongoli causando la morte del loro bestiame) e della conseguente morte del bestiame, da ormai 20 anni decine di migliaia di pastori si trasferiscono in città. Più precisamente, si trasferiscono in una sola città: la capitale Ulan Bator, che ad oggi accoglie 1,5 milioni di abitanti, ovvero circa la metà dell’intera popolazione mongola.

Per dare un’idea del sovraffollamento che affligge Ulan Bator, si pensi che la densità media della popolazione in Mongolia è meno di 2 ab/Km2, mentre nella capitale si superano i 295 ab/km2. Ovviamente è una densità ancora molto bassa se paragonata a quella delle grandi metropoli asiatiche (basti pensare che Manila arriva a più di 41 mila ab/km2), ma la velocità dell’inurbamento ha reso il fenomeno ingestibile per le autorità mongole.

Circa il 55% della popolazione della città vive in quartieri di yurte abusive, cosicché la periferia urbana della capitale assume l’aspetto di una “tendopoli”. Secondo il vice sindaco di Ulan Bator, Batbayasgalan Jantsan, in questi grandi quartieri informali allestiti per accogliere i migranti interni mancano del tutto acqua ed energia elettrica. Inoltre, sebbene gli abitanti delle tendopoli rappresentino solo la metà della popolazione cittadina, sono causa di circa l’80% dell’inquinamento urbano.

L’inquinamento atmosferico nella capitale mongola

La popolazione di Ulan Bator vive immersa in una costante coltre di smog che si fa ancora più fitta durante i mesi invernali, quando le stufe a carbone delle yurte immettono nell’aria tonnellate di Co2 senza alcun filtro.

Si è stimato che negli inverni più rigidi si raggiungono picchi di -40 C°, il che rende Ulan Bator la capitale più fredda del mondo. Per resistere a temperature così estreme, la popolazione brucia uno dei principali prodotti dell’attività estrattiva mongola: il carbone. Tonnellate su tonnellate di carbone, e quando il carbone non basta, si “allunga” con rifiuti e plastiche, che rendono ancora più irrespirabile l’aria.

Aria tossica a Ulan Bator per carbone e rifiuti bruciati

A causa dell’assenza nelle periferie di un adeguato sistema di riscaldamento, l’inquinamento atmosferico della città è 20 volte superiore al limite stabilito dall’OMS.

Considerando che l’inquinamento dell’aria è causa diretta o indiretta di circa il 10% delle morti nella capitale, non è esagerato affermare che esso sia diventato una minaccia alla sicurezza nazionale mongola.

Questo “grande male”, tuttavia, non colpisce tutta la popolazione in modo uniforme. Ad essere maggiormente colpiti sono proprio i nuovi “immigrati”, i profughi delle steppe che si affollano nelle tende a nord della città e non possono permettersi abitazioni più confortevoli con riscaldamenti elettrici. Il carbone in Mongolia si è fatto stigma sociale: sono i poveri quelli che lo estraggono (più o meno legalmente), lo smerciano, lo comprano, lo bruciano, lo respirano, e ne muoiono.

La necessità di ripensare il sistema

Il paese dagli immensi cieli blu è diventato il paese dagli immensi cieli opachi. Ulan Bator vista dall’alto è una cortina di fumo che sovrasta la città, si insinua nelle vie, entra nelle case e nelle narici della gente. Forse è più leggera di una cortina di ferro, ma più sottile e pervasiva.

L’inquinamento atmosferico impedisce alla popolazione di condurre una vita normale, perché impedisce l’atto alla base della vita stessa, tanto banale quanto fondamentale: respirare. Un abitante di Ulan Bator introduce nel proprio corpo tra gli 800 e i 1200 microgrammi di particelle pm10 e pm2,5 per metro cubo di aria respirata: nella capitale mongola si girava per strada con la mascherina ben prima del covid, e non si smetterà di usarla a fine pandemia.

Mascherine per lo smog a Ulan Bator

Le soluzioni ad un problema così complesso non possono che essere altrettanto complesse.

Si potrebbe immaginare di sostituire le stufe attuali con altre più tecnologiche ad emissioni ridotte; di avviare un piano di costruzione edilizia per accogliere i nuovi immigrati in vere abitazioni provviste di energia elettrica; di regolamentare il mercato del carbone; o di agire alla radice stessa dello sprawl urbano e dare sussidi alle famiglie di pastori perché non abbandonino le steppe.

Tutte queste politiche, in ogni caso, richiederebbero un’azione decisa del governo mongolo.

by Ilaria Petrolati